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Metti un giorno a Verona

L’attesa è finita, si parte con destinazione Verona. Youssouf, ventenne richiedente asilo maliano, ha un occhio talmente malandato da non vedere quasi più nulla da quella parte. A nulla sono valse finora le numerose visite in Abruzzo. Impossibile finora capire le cause della sua patologia e come intervenire. Così gli suggeriscono una struttura d’eccellenza in Veneto. Altri mesi in bilico, forse c’è bisogno di un trasferimento in un altro Centro d’accoglienza ma posti liberi non se ne trovano. Intanto la situazione dell’occhio peggiora. Così il Consorzio Solidarietà Aprutina, che lo ospita attraverso il CAS di Rocca Santa Maria, decide di rompere gli indugi: lo accompagneremo noi. E sono io la persona destinata a seguirlo.

Partiamo il giorno precedente la visita. Lo conosco, è un ragazzo mite e volenteroso, che aveva partecipato con dedizione ad alcune mie lezioni d’italiano. “Preparati, gli dico, sarà un lungo viaggio” rendendomi subito conto di quanto suonasse ridicola tale affermazione alle orecchie di una persona che ha attraversato il deserto del Sahara per giungere fin qui.

Durante il lungo viaggio scambiamo poche parole e, giunti nella Casa di Ospitalità degli Stimmatini, ci riposiamo per qualche ora. Dopodichè gli propongo di andare a cenare nel meraviglioso centro storico veronese. “Ti va di mangiare un boccone e fare due passi, Youssouf?” “Certo” mi risponde con poco entusiasmo. Capisco che la sua preoccupazione è tanta e i pensieri sono altrove. Non per questo, tuttavia, non rimane incantato da piazza Erbe o dall’Arena. “Davvero ha più di duemila anni?” chiede con stupore. Procediamo verso la casa di Giulietta. “Conosci la tragedia shakespeariana?” “No” fa cenno col capo, e così gli descrivo la popolare storia d’amore. Sembra interessato, ma in un attimo lo vedo di nuovo immalinconito. A tavola, finalmente, sia apre un po’. “Matteo io penso sempre al mio occhio. E poi i documenti… perché ci vuole così tanto tempo per decidere se abbiamo diritto o meno a un permesso di soggiorno di lunga durata?” L’interrogativo non mi è nuovo, anzi,  è sempre lo stesso. L’avrò sentito centinaia di volte da centinaia di ragazzi. Eppure mi coglie sempre impreparato. “Vedi… purtroppo (balbetto) i tempi tecnici… in Italia sono questi. Intanto adesso stai rinnovando il permesso temporaneo e puoi cercare un lavoro”. “Certo, Matteo ma non è facile, non ho avuto fortuna finora”. “Non ti scoraggiare, non è facile per nessuno, di questi tempi. Ci vuole tanta pazienza. Il tuo migliore amico a Rocca si chiama Jobbe, come Giobbe che aveva una pazienza infinita”. Per un attimo chino il capo sul piatto sentendomi in colpa, poi cerco di sdrammatizzare con qualcosa di stupido. “Ehi guarda lì Youssouf – dico facendo cenno alla presenza nella locanda di un’avvenente donna di chiare origini africane. Ma niente da fare, anche questo argomento lo riconduce a pensieri tristi. “Vedi Matteo, anche questo per noi è difficile. Mi sento disprezzato per la mia condizione sia dalle donne italiane che da quelle straniere che hanno già un lavoro”. Almeno il cibo lo metterà di buon umore, penso. “Ti è piaciuto lo stracotto che hai preso?”. “Sì Sì”. “Dai torniamo in albergo, che domattina dovremo essere puntuali”.

E infatti, tanta è la sua (ormai anche la mia) apprensione, che l’indomani arriviamo all’ospedale Don Calabria con un’ora e mezza di anticipo. Una lunga attesa e finalmente la visita. Spieghiamo tutto al medico. I problemi che vanno avanti da anni e poi un brutto pugno all’occhio subìto in prigione in Libia. Iniziano i controlli e arrivano i primi responsi. “Forse ci vorranno altri esami specifici. Si tratta di esami particolari, che svolgiamo in un’altra struttura. Dovrà tornare nei prossimi giorni”. “Vede dottore – provo a spiegare – veniamo da Teramo e lui è ospite di un nostro Centro d’accoglienza, non è stato facile organizzare questo viaggio, non si potrebbero svolgere oggi tutti gli esami del caso?” Il medico resta un po’ in silenzio, sospira e poi ci dice “seguitemi”. Siamo fortunati, non c’è affollamento e l’oculista decide di fare uno strappo alla regola. Ancora un’ora di test vari e finalmente arriva la diagnosi: “è una malformazione a una membrana che ha causato questi problemi. “Dovrò parlare col chirurgo per capire se si potrà intervenire. In caso positivo potrà recuperare la vista da quell’occhio, ma solo parzialmente. Avremo bisogno di alcuni giorni per decidere. Vi chiameremo appena stabiliremo il da farsi”.

Andiamo via con qualche certezza in più e una nuova piccola attesa davanti. “Dai, dai, faccio forza a Youssouf, finalmente abbiamo capito di cosa si tratta e sappiamo che probabilmente potrai recuperare in parte l’occhio. C’è da essere contenti!” “Sì, certo” mi dice ancora un po’ abbacchiato. Forse sperava di tornare completamente guarito.

Durante il viaggio di ritorno continuo a pensare a quello che ci siamo detti con Youssouf e a quello che sento dire spesso intorno a me. Che questi ragazzi sono dei privilegiati, che stanno meglio degli italiani. Una persona nata in Italia o in Occidente – rifletto percorrendo all’inverso l’autostrada del Brennero – sarebbe arrivata a vent’anni quasi orba oppure si sarebbe curata prima e meglio? Intanto in macchina mi ero sintonizzato su una trasmissione radiofonica. Incredibilmente è una puntata dedicata alla musica del Mali, una terra prodiga di artisti di eccezionale livello, molti dei quali ormai assurti alla fama internazionale. Parte una canzone di Boubacar Trore e il viso di Youssouf finalmente si accende: “conosco questo cantante, è bravissimo. Sta cantando nella mia lingua, in bambara. È una canzone che parla delle violenze nella mia terra. Sai non passano due o tre mesi senza che mi giungano notizie di attentati dalle mie parti”. A noi invece, che siamo sommersi di informazioni, penso ancora tra me e me, queste notizie spesso non arrivano. Poi parte un brano della cantante Rokia Traore e poi ancora uno di Ali Farka Toure. “Lui invece canta in un'altra lingua del Nord. Non lo comprendo. Ci sono tante lingue da noi”. Così stavolta è lui a farmi da insegnante. “Mi dici come si chiama questa trasmissione? Voglio ascoltarla anch’io”. “Però non danno sempre musica maliana, anzi, questa è un’eccezione” lo avverto. “Non fa niente, lo immagino, ma io voglio ascoltare anche la musica italiana e americana”. Resto in silenzio e riprendo la mia polemica interiore. Ma come? Non sono loro quelli che rifiutano usi e costumi occidentali?

Così tra uno scambio di battute con Youssouf e uno con me stesso, siamo già arrivati a Teramo. “Ci aggiorniamo presto Youssouf. Vedrai che si aggiusta tutto se Dio vuole. Inshallah, mi saluta lui. Inshallah.

 

 

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