UN’ESPERIENZA TOCCANTE IN TERRA SANTA
di Antonio Di Giuseppe
Quest’anno il Migramed, ovvero l’incontro annuale delle Caritas dell’area mediterranea in tema di migrazione si è tenuto in una località d’eccezione: la Giordania.
La scelta del posto non è casuale. Da un punto religioso siamo in piena terra santa, ai confini con Israele e la Siria. Molti degli eventi biblici sono avvenuti in questo paese.
Da un punto di vista geopolitico invece siamo in un posto cruciale ai confini con la Siria, Israele e l’Arabia Saudita.
Nonostante la guerra in Siria e le tensioni ai confini tra i vari paesi mediorientali confinanti, il Regno Ashemita di Giornania si caratterizza per una stabilità politica ed una tolleranza religiosa tali da diventare un esempio nello scacchiere mediorientale.
Con 9 milioni di abitanti accoglie attualmente circa 3 milioni di profughi diventando in tal mondo il primo paese al mondo per numero di rifugiati accolti. Di questi circa 1,5 milioni sono Siriani.
In questa realtà fondamentale è l’intervento delle Caritas, le quali stando da tempo sul territorio riescono a mediare e intercettare le necessità spesso primarie di queste popolazioni travagliate dalle guerre.
Caritas Giordania ad esempio è la prima Ong del paese, con diverse centinaia di operatori che quotidianamente aiutano le popolazioni locali ed hanno un ruolo di primaria importanza affianco alle istituzioni sia monarchiche che governative.
Ma come mai la Giordania è così stabile in un’area caratterizzata da numerose tensioni?
La risposta si può sintetizzare nei seguenti fattori: la saggezza dei governanti con buone alleanze strategiche, un accordo con Israele , una leadership pacifica e stabile e la presenza di diversi centri che accolgono ed in un certo senso hanno ammortizzano fino ad ora i grandi flussi di persone che scappano dai paesi limitrofi.
Nel paese ma più in generale in tutta l’area si assiste ad un aumento della immigrazione mussulmana e a una diminuzione di quella cristiana.
I cristiani sono il 2,5-3% della popolazione ma nonostante siano una minoranza hanno un ruolo rilevante nella vita sociale ed economica, detenendo infatti il 35% di ricchezza del paese.
La tolleranza religiosa e il riconoscimento delle diversità hanno permesso al re di Giordania di creare una stabilità in un’area circondata da tensioni e conflitti; è l’unico paese dove lo stesso monarca ha auspicato un festeggiamento comune della Pasqua da parte delle varie appartenenze religiose.
Dalle varie testimonianze di questo incontro è emerso un dato comune; il numero dei cristiani presenti in tutta l’area, quindi nei vari paesi mediorientali è andato sempre più negli ultimi anni diminuendo; ad esempio in Iraq si è passati da 1,5 milioni di cristiani nel 2003 ai 300.000 attuali.
Nella stessa Giordania si è passati da un 19% di popolazione cristiana al 4% per poi continuare a scendere negli ultimi tempi. Questo sta portando ad una diminuzione significativa del ruolo rappresentativo dei nostri fratelli cristiani in questa terra.
Gli arrivi dei profughi in Giordania è un fenomeno che si è tradizionalmente inserito nella storia di questo Paese, da sempre accogliente ma che ha assunto recentemente una importanza notevole e costante.
Flussi di profughi arrivano oltre che dalla Siria, dalla Palestina, dal Libano e Iraq.
Con la presenza di 22-30 minoranze etniche che convivono si assiste così alla tendenziale perdita delle più piccole; e si cerca costantemente un dialogo tra le parti.
Spesso i cristiani hanno paura ed emigrano e portano con se anche la ricchezza che avevano creato nel paese.
In questo contesto delicato e variegato, la Caritas Giordania promuove modelli e strategie d’eccellanza sul fronte dell’istruzione e della sanità.
La maggior parte delle organizzazioni cristiane sta effettivamente portando servizi di alta qualità nel paese.
Vi sono enormi campi di profughi in Giordania come quello di Zaatari con più di 80.000 persone o quello di Azraq, costruito in seguito al riempimento del primo in una zona desertica.
Ma l’immagine di queste vere e proprie “città di profughi” non deve essere vista come un isolamento.
Molti hanno infatti lasciato i campi e si sono integrati nelle città trovando lavoro o uscendo comunque dalla permanenza difficile nel campo profughi.
L’85% dei siriani arrivati negli ultimi anni si è infatti spostato nelle zone urbane mescolandosi con la popolazione locale ed apportando il loro contributo lavorativo. Tuttavia emerge che più dell’80% dei profughi siriani sta vivendo sotto la soglia di povertà.
Riguardo l’accoglienza, la Caritas ha attuato un vero e proprio cambio di paradigma: mentre 20 anni fa un rifugiato prendeva il proprio pacco cibo e tornava in tenda, adesso si mira ad una integrazione più piena.
Dal 2012 sono state effettuate circa 250.000 visite a domicilio per evidenziare le vulnerabilità e trovare risposte ai singoli casi individuali. Il 32% delle attività della Caritas sono nell’ambito sanitario mentre il 23% nei beni di prima necessità.
Una particolare attenzione viene posta nell’ambito del supporto psicologico e sociale. Più del 50% dei rifugiati del mondo presenta infatti disagi mentali a causa di violenza, stress, depressione ed ansia, sia in adulti che in bimbi.
La rappresentante di Caritas Europa, Leila Boedaux che riunisce le Caritas di 49 paesi, rafforza l’idea della necessità di una forte advocacy per sensibilizzare e dare consapevolezza anche presso le istituzioni.
Il piano europeo ha visto l’arrivo in Europa di un milione di rifugiati.
Anche la Turchia presenta circa 3 milioni di rifugiati e se a volte si ha la percezione di tanti arrivi nel nostro paese i dati a livello mondiale dicono ben altro; l’85% dei rifugiati si trovano in paesi in via di sviluppo.
In Europa si è passati da una fase in cui ogni singolo stato agiva in maniera diversa ed indipendente (basti ricordare le posizioni di chiusura Austriache e le barriere dell’Ungheria) ad una in cui si è cercato un coordinamento: l’obiettivo è quello di ricollocare 160.000 persone dalla Grecia e dall’Italia a seconda del numero di popolazione.
Da un punto di vita istituzionale in Europa si vogliono raggiungere i seguenti obiettivi: la diminuzione dell’immigrazione irregolare, l’aumento del salvataggio di vite ed una riorganizzazione della richiesta di asilo in Europa. In relazione a quest’ultima materia vi sono infatti troppe differenze tra i vari stati, si auspica così la riforma anche del trattato di Dublino che fino ad adesso ha scaricato gran parte delle difficoltà burocratiche sul paese in cui avviene lo sbarco.
Sempre in Europa è la Germania a detenere il maggior numero di presenze di immigrati con 10 milioni di immigrati. Ad esempio Berlino è per presenza di immigrati turchi la seconda città per presenza turca più grande che esiste.
Qui si è tentato anche una integrazione istituzionale aprendo l’assunzione degli stessi turchi e mussulmani nella polizia.
Caritas Italia, nelle parole del suo rappresentante al Migramed, Oliviero Forti, sintetizza con poche parole il pensiero unanime di tutti i presenti: «i migranti non sono un pericolo, sono in pericolo» .
L’accordo dell’Unione Europea con la Turchia, costato 6 miliardi di euro non ha fatto altro, chiudendo la rotta balcanica a spostare verso la Libia, la rotta più pericolosa la maggior parte dei flussi migratori; 14.500 sono state qui le vittime accertate negli ultimi anni.
Critico il pensiero delle Caritas anche verso il recente accordo istituzionale con la Libia, il terzo in ordine cronologico una decina d’anni. E se si parla di terzo qualcosa evidentemente non ha funzionato.
Tra l’altro, l’unica ambasciata rimasta in Libia è quella Italiana, tutte le altre sono andate a casa, questo basta a far riflettere la legittimazione della controparte con cui si stipula l’accordo.
Più di 5000 persone sono morte nel 2016 cercando di arrivare in Europa.
A livello di risultati si è pensato al fatto che non arrivano più ma a quale prezzo? Si è chiusa solo una porta di un fenomeno di portata intercontinentale di cui siamo anche responsabili; basta ricordare le ingerenze occidentali sia in Libia che in medio oriente per capire che non siamo solo spettatori di certi eventi ma ne siamo corresponsabili a volte.
Emerge così il bisogno di un’advocacy forte e caritatevole, un impulso sempre più attivo nel dialogo interreligioso e di mediazione con le varie situazioni limitrofe.
Per questo emerge l’assoluto bisogno di lavorare a livello internazionale, con governi, con i decision makers per fermare i finanziamenti al terrorismo ed aiutare concretamente le popolazioni che sono costrette a scappare dalla propria terra. C’è bisogno di un’unione di intenti.